Post 159 – Fare e non fare
Giovedì 15 ottobre 2015.
C’è uno strano e misconosciuto fenomeno in Medicina, che ha grande impatto su qualità ed esiti delle cure. È un’irrealistica aspettativa dei possibili benefici derivanti da indagini diagnostiche e trattamenti. Al contrario, vige un atteggiamento pessimistico rispetto alle conseguenze dello scegliere di non effettuarli. È un atteggiamento cognitivo che riguarda i clinici e di conseguenza anche i pazienti, i cittadini. In altre parole, si temono molto più i possibili esiti sfavorevoli conseguenti al non aver fatto un certo test o un certo trattamento, piuttosto che le possibili conseguenze negative dell’aver fatto quel certo test o trattamento. Il fenomeno è emerso chiaramente da una recente revisione sistematica di tutti gli studi che hanno valutato quantitativamente le aspettative di beneficio o danno di test clinici e trattamenti. Agli esiti di questa revisione sistematica e di altri studi che affrontano questo fenomeno, la rivista JAMA Internal Medicine ha dedicato un editoriale .
A monte del fenomeno c’è un sentimento di fiducia non sempre giustificata sulle qualità protettive e riparatrici della Medicina e dei servizi sanitari. Fiducia sostenuta anche da un certo atteggiamento trionfalistico dei media, che descrivono la Medicina come una straordinaria impresa in costante miglioramento, che ha come esclusivo obiettivo la salute delle persone, che tende verso una mirabolante progressiva tecnologizzazione, con farmaci sempre nuovi e migliori a disposizione. A questa ottimistica visione mediatica fa da contrappunto il susseguirsi degli scandali, dei casi di malasanità, percepiti però più che altro come episodi singoli, incidenti, imprevedibili scivoloni lungo il cammino luminoso della Medicina.
A ben vedere, le cose stanno diversamente e l’editoriale di JAMA Internal Medicine lo mostra bene. La realtà è che per molti test clinici e trattamenti, farmacologici o interventistici, l’avanzamento è raramente per balzi, e piuttosto invece per piccoli passi, con possibili arretramenti dovuti a questioni di mercato, come accade per nuovi farmaci che talvolta sono un po’ meno efficaci e sicuri di quelli già disponibili. E soprattutto la realtà è che ogni test e ogni trattamento a cui ci si sottopone ha potenziali benefici e potenziali rischi, e la possibilità di trarne un beneficio o un danno è una questione di probabilità, per cui nessuno sa se quel singolo paziente trarrà da quello specifico intervento più beneficio o più danno.
L’editoriale cita alcuni esempi che evidenziano il bias cognitivo che spinge i clinici a fare piuttosto che a non fare. I clinici temono maggiormente gli eventuali danni per il paziente derivanti dal non aver fatto un test o un trattamento, rispetto agli eventuali danni derivanti al paziente proprio per aver fatto quel test o quel trattamento. E’ come se a fronte del danno derivante da una decisione di intervenire, con un esame diagnostico, con un farmaco, con un intervento invasivo, ci si sentisse comunque giustificati anche a fronte di esiti negativi, al contrario di quanto accade per il danno derivante dal non aver fatto. I pazienti sono completamente disarmati di fronte a tale fenomeno e spesso anche loro tendono ad accettare meglio eventuali esiti negativi derivanti da un intervento piuttosto che da un non intervento.
L’editoriale indica anche che in quei casi in cui il medico coinvolge il paziente nella decisione clinica e condivide con lui i possibili rischi e benefici del fare piuttosto che del non fare, allora si vede che spesso i pazienti optano per il non fare. Viene riportato il caso degli interventi percutanei su pazienti con malattia coronarica stabile. Gli autori dello studio hanno registrato le discussioni attraverso le quali i clinici sono giunti alle loro decisioni e le hanno analizzate. Nella stragrande maggioranza dei casi i clinici arrivavano molto rapidamente alla decisione di intervenire, senza fare un’accurata disamina del bilanciamento tra rischi e benefici, senza prendersi la briga di discutere con il paziente le possibili alternative, le sue preferenze. Quando questa discussione c’era, i pazienti, adeguatamente informati, potevano fare una loro valutazione, e in molti casi, quando c’era una situazione di sostanziale bilanciamento, dimostravano di preferire un atteggiamento attendista e non interventista.
Dunque sarebbe necessario che i clinici prendessero coscienza di questo bias cognitivo che li spinge a preferire il fare al non fare. Inoltre i clinici dovrebbero sempre avere a disposizione le informazioni corrette sul bilanciamento di rischi e benefici di ogni intervento diagnostico e terapeutico, così da poterle condividere con il paziente e giungere alla decisione insieme a lui. In tal modo, di sicuro si ridurrebbe il numero delle azioni mediche inutili e quindi potenzialmente dannose, oltre che costose. Dicono Grace Lin e Rita Redberg, autrici dell’editoriale: “Più di un terzo dell’assistenza medica è uno spreco e la maggior parte dell’assistenza non necessaria proviene dall’esagerato utilizzo di servizi che non migliorano gli esiti clinici.”
Caro Danilo, a conferma di quanto riferito dall'editoriale, ti riporto due eventi, inquietanti, accaduti nella scorsa e nell'attuale settimana, in un setting molto sensibile: il timore di essere affetto da una forma iniziale di Alzheimer quando si presentano piccoli episodi amnesici. Il TG3 regionale ER, nell'orario serale (massimo ascolto), ha affermato che a Ferrara era possibile fare la diagnosi di Alzheimer, sottoponendosi a PET per l'amiloide (ovviamente con il servizio sanitario regionale). Secondo evento (due gg fa): al convegno della Società Italiana di Neurologia una esperta (prof. di neurologia) affermava, di fronte a una platea di giovani neurologi in formazione, che la diagnosi preclinica va ricercata nella routine diagnostica, il prima possibile, tramite rachicentesi e PET per ricerca della amiloide. Se consideriamo che Choosing Wisely ha appena messo tra le pratiche ad alto rischio di appropriatezza nella diagnosi di demenza proprio i succitati test, a meno che non si tratti di un setting di ricerca, credo che la strada da compiere nel raggiungimento della appropriatezza sia ancora lunga ed in salita. Piero de Carolis
Peraltro, il bias citato sembra agire al contrario nel caso degli anti-vaccinisti. Bisognerebbe spiegarlo. Personalmente sono convinto che pecunia olet!... sia nel caso della "lobby naturista anti OGM anti BigPharma anti tutto", sia nel caso di chi propone PET o coronaroTC per un nonnulla...
...mi chiedo... quanto però, in Italia, questo fenomeno è correlato al problema medico-legale?
Qui si parla di terapia, ma che dire del potere terapeutico delle diagnosi? Nulla irrita il paziente come il non avere un nome (anche errato!) di patologia da attaccare al suo caso, ma quando ce l'ha allora si va dall'euforia alla disperazione. I nomi polarizzano l'umore. Un qualsiasi sintomo o problema di NDD spesso è persino più detestato di certe diagnosi a prognosi infausta, e coloro che non emettono una diagnosi immediata o mantengono la riserva di prognosi vengono screditati. Ecco il punto: le proposte di prevenzione o cura nuove (e non testate su larga scala) spesso affascinano come una bella persona straniera, proprio perché portano qualcosa di ignoto e soprattutto hanno un nome mai inteso prima (che non sarà un freddo codice, bensì un cognome o un nome accattivante). Si dice che il cognome giusto aiuta, ma anche un nome azzeccato (e non ho detto di comprovata efficacia) aiuta ancor meglio. Oppure viene demonizzato, come nel caso giustamente citato degli individui che si professano anti-vaccinazioni. Un nome sulla bocca di tutti diventa un "weasel word", una parola svuotata di contenuti proprio perché trita. Sta a noi sanitari consapevolizzare l'utenza e ridare contenuti verificati e attendibili alle parole. E far capire che a volte l'astenersi è meglio che agire in nome di chissachè. "Ma qui non mi fate la Tecnica XYZ? E l'esame WQJ? Ho letto che serve..." - "Nel suo caso non serve".
Il coinvolgimento del paziente nella decisione clinica è una metodologia di lavoro che andrebbe inserita nel corso di laurea (magari insieme alle " medical humanities"). Oltre a offrire i vantaggi citati nel post, ha un impatto positivo sulla relazione medico-paziente e dunque sulla compliance e la soddisfazione di quest'ultimo. Ancorché trascurata, questa metodologia ha solide basi ed è ben documentata: www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3445676/
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